Trasporre un videogioco come Until Dawn, che offre un’esperienza immersiva e ricca di scelte interattive, in un film horror di meno di due ore è una sfida ardua. Il gioco, amato dai fan del genere per la sua trama ramificata e per il suo coinvolgimento psicologico, permette ai giocatori di influenzare direttamente il destino dei protagonisti, affrontando minacce che spaziano dal soprannaturale al mentale. Adattare tutto questo in una pellicola non è affatto semplice, eppure il regista David F. Sandberg (Annabelle: Creation e Lights Out) e gli sceneggiatori Gary Dauberman e Blair Butler sembrano aver preso una strada radicalmente diversa, rinunciando a un adattamento fedele per puntare su un approccio più diretto e caotico.
La storia del film parte dal presupposto centrale del gioco: una giovane donna, Clover (Ella Rubin), si avventura con un gruppo di amici nella foresta alla ricerca della sorella scomparsa, Melanie (Maia Mitchell). Quello che inizia come una missione disperata si trasforma rapidamente in un incubo senza fine: intrappolati in una villa isolata, devono affrontare una serie di minacce soprannaturali che li condurranno a una morte ripetuta, sempre a meno che non riescano a sopravvivere fino all’alba. Questo prematuro ingresso nel caos, saltando le fasi di costruzione della trama, segna l’inizio di un film che sembra voler evitare il più possibile le complicazioni del gioco, lasciando i personaggi in balia di eventi horror senza una solida preparazione.
Nel tentativo di accelerare l’azione, Until Dawn perde l’opportunità di sviluppare i suoi personaggi. Il gruppo di amici di Clover viene presentato in modo sbrigativo, con dialoghi che sembrano più funzionali al genere che a una reale caratterizzazione. La protagonista stessa, seppur mossa da un obiettivo apparentemente forte, non riesce mai a guadagnarsi il coinvolgimento del pubblico. Le morti violente che caratterizzano il film sono frequenti, ma risultano prive di significato, quasi come se facessero parte di un gioco senza scopo. Il loop temporale, che avrebbe dovuto creare una tensione crescente, diventa invece un pretesto per esibire effettacci e creature mostruose senza un legame emotivo con il pubblico.
L’unico personaggio che emerge parzialmente da questa confusione è Megan, interpretata da Ji-young Yoo. La sua interpretazione di una chiaroveggente introduce una certa sfumatura alla narrazione, ma anche il suo ruolo finisce per sembrare più un espediente che una vera risorsa per la trama.
In un film che vuole a tutti i costi omaggiare l’universo di Until Dawn, gli “easter egg” – come i suoni iconici del gioco e la scenografia che richiama le miniere – sono presenti, ma sembrano più un’ombra del materiale originale che un reale tributo. La scenografia di Jennifer Spence, purtroppo, è oscurata dalla scarsa illuminazione, che rende difficile godersi appieno l’ambientazione. Di notte, tutto ciò che vediamo è una serie di ombre indistinte, annullando gli sforzi del team di effetti speciali.
Un altro punto critico è l’utilizzo del Dr. Hill, interpretato da Peter Stormare. Sebbene l’attore porti un’energia necessaria a risvegliare un po’ di vita nel film, il suo ruolo è gestito male, privando la figura di un impatto rilevante. La sua presenza non riesce a legare la narrazione o a fornire il supporto psicologico che caratterizzava il personaggio nel gioco.
Adattare un gioco come Until Dawn, non era una missione facile. Eppure, il film non riesce a cogliere l’intensità che il gioco trasmetteva, né a vendere veramente il suo concetto.
In conclusione, Until Dawn è un film che si riduce a una serie di scene horror disconnesse, in cui i personaggi muoiono ripetutamente senza che mai ci interessi se sopravvivano o meno. Un adattamento che fallisce nel suo intento più grande: catturare l’anima del gioco originale, perdendo nel processo ogni possibilità di rendere davvero spaventoso ciò che potrebbe essere una notte da incubo.